Com’è disciplinata questo tipo di attività? Quali i profili di legittimità?
Ne abbiamo parlato con il prof. Giuseppe Losappio, ordinario di Diritto Penale all’Università di Bari.
A chi non è mai capitato di leggere di raccolte di indumenti usati, magari con volantini lasciati negli androni dei condomini o nelle cassette postali? Una buona cosa in apparenza che purtroppo spesso nasconde aspetti poco chiari, nonostante le candide vesti della solidarietà e della filantropia con le quali si presenta, come i loghi di enti non profit, caritatevoli laici o religiosi. È un fatto che alcune inchieste giudiziarie hanno fatto emergere una realtà diversa, più complessa, assai meno edificante perché queste raccolte, carpendo la buona fede di parroci e diocesi, sono animate da recondite e non consentite finalità commerciali, speculative.
Gli indumenti usati, essendo annoverati tra i rifiuti, hanno un loro prezzo. Pertanto, molti di questi pseudo sodalizi caritatevoli, cedono a peso gli indumenti raccolti ad apposite società che si occupano legittimamente di tale commercio, in quanto debitamente autorizzate, traendone a volte lauti profitti. Dei particolari risvolti di queste pratiche caritatevoli/commerciali, diffuse ampiamente sull’intero territorio nazionale, abbiamo chiesto chiarimenti ad un giurista, ovvero al prof. Giuseppe Losappio, ordinario di Diritto Penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Ateneo barese, avvocato penalista, già Presidente della Camera penale di Trani, che più volte si è occupato e si occupa professionalmente di questi temi.
Per dipanare una materia senza dubbio complessa e sfuggente è opportuno procedere dalla considerazione che la giurisprudenza della Suprema Corte classifica un bene nella categoria dei rifiuti nella prospettiva del soggetto che lo produce (o lo detiene), non in quella di chi ha interesse al suo utilizzo. Decisiva è la condotta del detentore/produttore. Quindi, disfarsi di indumenti usati significa produrre un rifiuto, che costituisce una frazione della raccolta differenziata dei rifiuti urbani. È vero che l’art. 14 della l. n. 166 del 2016 sancisce una deroga parziale alla disciplina generale con riferimento alle “cessioni a titolo gratuito di articoli e accessori di abbigliamento”, “idonei ad un successivo utilizzo”, conferite direttamente presso le sedi operative di “enti pubblici nonché gli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche e solidaristiche”. Per converso, la stessa fonte ribadisce che gli indumenti non destinati a questa forma di donazione diretta devono essere gestiti in conformità alla normativa sui rifiuti.
Quindi professor Losappio, pare di capire che quando questi indumenti non sono lasciati direttamente ad enti caritatevoli o ad esempio alle parrocchie, rientrano nel novero dei rifiuti?
«La donazione è consentita solo a tre condizioni:
1. che riguardi “articoli e accessori di abbigliamento idonei ad un successivo utilizzo:
2. che avvenga direttamente presso le sedi operative di enti pubblici nonché gli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche e solidaristiche (in altri termini non rientra nell’ipotesi dell’art. 14 la raccolta porta a porta);
3. che tali indumenti non siano oggetto di commercializzazione.
Se ricevo un pantalone devo donarlo (quindi cederlo gratuitamente) ad una persona che ne ha bisogno, se non è utilizzabile dev’essere smaltito come rifiuto mediante il conferimento negli appositi cassonetti»
Questo significa che se si regala un capo di abbigliamento questo deve essere fatto solo nei confronti di una persona che lo indosserà direttamente?
«Sì, la donazione dev’essere diretta nel senso che l’indumento deve essere consegnato alla persona che lo utilizzerà ovvero ad un ente senza scopo di lucro che provvederà alla consegna»”.
Ricapitolando, per gli indumenti usati, quando ci troviamo di fronte ad una raccolta di rifiuti e non ad una donazione?
«Sono raccolta di rifiuti la colletta porta a porta, anche se gestita per conto di “enti pubblici nonché gli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche e solidaristiche”.
È raccolta di rifiuti anche conferimento di abiti usati in un cassonetto posto presso la sede di “enti pubblici nonché gli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche e solidaristiche”.
Comprendo le intenzioni delle associazioni, delle parrocchie, delle diocesi che con le migliori intenzioni sostengono queste iniziative. Tuttavia, il rispetto delle regole è fondamentale. Gli scopi solidaristici e caritatevoli non escludono il carattere abusivo di alcune modalità di raccolta e non tengono conto dei gravissimi danni economici che subiscono gli operatori autorizzati dagli enti locali alla raccolta sul territorio degli indumenti usati, che per un verso sostengono i costi del servizio, per l’altro subiscono una grave menomazione del potenziale economico dell’attività di cui dovrebbero avere l’esclusiva”, conclude il Prof. Avv. Giuseppe Losappio.