Ce la faccio a venire, corro da te, da voi: ho dimenticato che oggi pomeriggio c’era nel tuo piccolo ma prezioso teatro un monologo di un attore sensibile, un pugliese umile ma consistente come un pezzo di pane. Chi ha fame?
Tu sul palco, insieme a lui a fine scena, ringrazi il Comune di Barletta per averti aiutato ma non come ti aspettavi.
Il tuo è un teatro indipendente che vive di pochi soldi. Per fortuna vive.
Manca poco, l’attore barese Franco Ferrante è tra gli astanti vestito di una tuta, sembra un operaio della parola, talmente disponibile, non ha bisogno di entrare in scena in modo sensazionale, da star. Scherza con il pubblico, la sala non è molto grande ma tutte le sedie sono occupate.
E comincia, poggiato al palco, strappa risate a un pubblico che, tremo, mi dà la cattiva impressione di essere poco preparato emotivamente al dramma cui sta per assistere.
I primi 10 minuti passano veloci, niente di che, quasi un peccato. Improvvisamente quel viso burlone, quello di Ferrante, clownesco, si trasforma, diventa una sorta di Joker perseguitato da uomo buono dal destino: inscena lentamente, con la mimica e il timbro di voce un dramma vero, vita vissuta, un amarcod personale; i primi anni di vita di suo figlio Arcangelo cui appena nato riscontrano una patologia neurologica importante.
Mi è venuto il magone. Ferrante è bravo, molto: urla, si muove in preda alla follia del dolore inspiegabile, sbatte i pugni contro le pareti di legno del teatro. Il pubblico mi sembra interessato più alle sporadiche battute che al resto. Magari mi sbaglio. E mi sbaglio per fortuna.
A posteriori sorrido persino io, pensando a chi deve dare un nome a ogni cosa gli capiti sotto il naso, a chi deve pisciare critiche per marcare il territorio ristretto della propria intelligenza.
Il monologo di Franco Ferrante “Arcangelo” ha memorie, sentori, beckettiani. Il teatro del drammaturgo irlandese Samuel Beckett è stato definito dalla superficialità mondiale degli esperti in teatro, “Teatro dell’assurdo”. Ma io chi sono per contraddirli? Mi assumo questa responsabilità, nessuno è moralmente intoccabile.
Quello di Beckett è il teatro che mette in scena l’insensatezza della vita. Molti dei personaggi da lui creati, vivono dell’assenza di un senso. Più che dell’assurdo è dell’assenza: nessuno ci spiega perché siamo al mondo, chi incontreremo, cosa fare e dove andare per trovare noi stessi e un motivo per l’esistenza.
Beckett vive intorno alla sedia poggiata sul palco da Ferrante, è nell’assenza di arredo, gingilli, scenografie. Beckett nella sua vita ha avuto accanto a sé l’ombra della depressione. Si è dovuto guardare dentro a volte trovando un amico, altre un nemico. Lo stesso è capitato a Ferrante. La paura lo ha messo contro il se stesso abituato alla quiete della normalità. Lo immagino chiedersi: “Sono un attore famoso cosa può capitarmi? La vita mi ha sempre premiato”. Eppure…
E scopriamo che solo chi ha sofferto riesce a trasformarsi in un essere umano decente. Il teatro è vita, lo capite?
Il monologo di Franco Ferrante è una dedica all’uomo, lui stesso, che il dolore imprevisto ha marcato: sei costretto a venire con me per questo tratto di strada, uomo, sussurra la vita, aggrappati a ciò che puoi o ti trascino comunque. E lui cerca di camminare, di correre, inciampa, si rialza, ricade.
Dedica il suo monologo a tutti coloro che negli ospedali ha incontrato: in particolare al bambino russo, a sua madre e a suo padre che clandestino dormiva in un garage pur di stargli vicino.
Franco è il padre di vita della sedia sul palco (rappresenta metaforicamente l’unico luogo sicuro), di sua moglie e di suo figlio, invisibili ma presenti, di ogni personaggio che guarda e plasma. È il padre della vita stravolta, dissacrata nel sacro apparente della tranquillità cui si anela inconsciamente.
Franco Ferrante è in attesa come tutti noi di un processo kafkiano immaginario, la cui sentenza è già scritta: condanna “sine die” alla precarietà dei sentimenti. Si può solo lottare per l’amore una volta trovato: Arcangelo è l’amore.
Grazie Alessandro, grazie Franco.