“Io e Debora eravamo compagne di banco. Era la mia migliore amica e per me lei non era ebrea.
Un giorno ha dovuto lasciare la scuola e da allora non l’ho più vista. Nel 2014, grazie a mio marito, ho scoperto che Debora e la sua famiglia erano stati deportati ad Auschwitz e subito sterminati nella camere a gas”.
Fa fatica Luciana Romoli a raccontare, il suo vissuto, la sua storia di partigiana romana. Si ferma, schiarisce la voce e continua. Lei staffetta della Resistenza, antifascista viscerale, a soli 8 anni, si è ribellata alle leggi razziali. Non ha mai condiviso l’invito della supplente a scrivere pensierini contro gli ebrei, contro Debora.
Luce, questo il suo nome da partigiana, con il fazzoletto tricolore al collo, ha spiegato chi era “la staffetta partigiana” presso la sede Hastarci di Trani, l’Associazione di cultura e promozione sociale, autonoma apartitica, a carattere volontario.
“La staffetta è una ragazza che teneva i collegamenti tra il Comitato di Liberazione Nazionale e le brigate partigiane, volontari armati che combattevano durante il periodo della Resistenza, spesso situate in campagna o sulle montagne, prosegue. Portavano ordini, medicinali e armi. Senza le staffette niente collegamenti tra i partigiani”.
Luciana Romoli oggi 88 anni, a 13 anni viveva nel quartiere di Casal Bortone a Roma e dopo l’esperienza scolastica, che le ha portato via la sua amica, colpevole di essere ebrea, ha deciso di diventare una staffetta partigiana rischiando, insieme a sua sorella, violenze, torture e brutalità di ogni genere.
“Mio zio, chiamato “Muto”, è stato torturato, gli hanno tolto le unghie di mani e piedi. E in quel momento che sono diventata Luce, la staffetta partigiana Luce. Il cambio del nome era necessario, perchè se ti arrestavano non potevi fare il nome degli altri partigiani in quanto non li conoscevi.
Facevamo finta di portare la verdura, in realtà portavamo alle brigate ordini, medicinali e armi, anche mitragliette smontate. Mia sorella acquistò due pastiglie di cianuro. Una la diede a me dicendomi di “mandarla giù” in caso venissi arrestata, torturate e violentata. Non dovevamo permetterglielo, meglio togliersi la vita”.
La storia di Luce invita tutti a riflettere.
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