Il mondo 2.0 e le nuove tecnologie mi hanno sempre affascinato, l’innovazione è qualcosa in divenire e pertanto tocca a noi starle dietro da spettatori e talvolta anche nel ruolo di attori. Questo mio interesse si è ulteriormente accentuato dopo aver conseguito un master in “Web Marketing e Social Media Management” che, unitamente ad un tanto atteso patentino di giornalista, mi ha completamente catapultato nel mondo dei nuovi media, tra cui i Social Network.
Iscritta al più diffuso e popolare dei social, Facebook, sono anch’io una Social Media Addicted che, pur non essendo patologica, lo segue con curiosità ed interesse, affascinata nel vedere fino a che punto arriverà la comunicazione attraverso questi canali. Mi interessa osservare e studiarne le pecche e potenzialità chiedendomi quante diventeranno tra qualche anno le pubblicità a pagamento rispetto ai post dei suoi iscritti.
Altra cosa “interessante”, e con ciò intendo dire più misteriosa e di difficile esplorazione, è capire quali sono le ragioni che portano taluni al successo attraverso questi mezzi.
Sotto l’attenta e scrupolosa indicazione di uno dei miei migliori docenti del master, ho acquistato un testo intitolato “Fai di te stesso un brand”, edito da Flaccovio e scritto da Riccardo Scandellari.
Non ho ancora finito di leggerlo ma le indicazioni sono chiare: pubblicare le informazioni negli orari di maggior rilievo e valutare i contenuti di ciò che si pubblica. Chiaramente giorni ed orari variano in base alle argomentazioni (perché è ovvio che il venerdì, in prossimità del week-end a nessuno, o quasi, interesserà il Piano di Sviluppo Rurale della Puglia, ma piuttosto un programma enogastronomico, uno spettacolo, un concerto, e così via), ma è anche chi pubblica il post a fare la differenza.
E’ un personaggio famoso?
Ad esempio, prendiamo la blogger ed opinionista Selvaggia Lucarelli, a cosa deve tanto successo da riuscire a far balzare ogni suo post ai primi posti (scusate il gioco di parole) in termini di visibilità e di “mi piace”?
Effettivamente chi è Selvaggia Lucarelli? A dire il vero non lo so neanche io e non ho nessuna intenzione di dedicarle del tempo, mi basta sapere che non è divenuta famosa grazie alle sue doti canore, né teatrali o legate ad altre arti, bensì al fatto che esprima delle opinioni, da cui il suo ruolo di maggior successo: l’opinionista su questo o quell’altro avvenimento o episodio riguardanti la vita di qualcuno.
In effetti i circa 1,65 miliardi di iscritti a Facebook (dato aggiornato al 2016 – Fonte: JeffBullas, Statista, DMR) non sembrano essere molto interessati agli argomenti di approfondimento, cioè né a fatti di elevato spessore culturale, né a notizie di analisi sulla politica nazionale ed estera; piuttosto ciò che attira la loro attenzione sono frasi spot, selfie, ed argomentazioni che lasciano il tempo che trovano.
Eppure Facebook è costruito su algoritmi! Dovrebbe trattarsi quindi più che altro di questioni legate alla logica, alla matematica. Se andassimo però a scavare nelle origini del più famoso di tutti i social, ci renderemmo conto invece che lo stesso è stato creato per far incontrare principalmente soggetti femminili e maschili, e sperimentato ancor prima come stupido gioco che, mettendo a confronto due donne, chiedeva agli iscritti al sito di attribuire ad ognuna un giudizio numerico. Verrebbe quasi da dire che alla fine ciò che muove tutto è come sempre l’attrazione fisica, la possibilità di visualizzare una bella donna, un décolleté generoso e magari riuscire anche ad incontrare di persona qualcuno/a. D’altronde non sarebbe proprio una novità, visto che i siti più visitati nel web sono quelli dedicati alla pornografia.
Ed è proprio in questi luoghi virtuali, meglio definiti dalla psicologia come “non luoghi” (stessa definizione viene utilizzata anche per gli ipermercati vissuti talvolta come spazi in cui trascorrere del tempo o fare auspicati incontri), che spesso nascono e “muoiono” personaggi che riscontrano grande seguito grazie ad un video lanciato in rete, ad un selfie accattivante, o all’incisione di un brano diventato di tendenza anche per la partecipazione al talent del momento.
Infatti tutto è moda e passa in fretta, come in un “fast food”, e la comunicazione “mordi e fuggi” che viaggia attraverso questi canali spesso non è altro che uno stralcio di lunghi e dettagliati articoli di giornalisti di rilievo, ridotti ai minimi termini in un post pur di conquistare un like.
Durante un corso di Deontologia, tenuto dal Presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia nella sede di Bari, si parlava di come in effetti grazie alla rete, ed anche all’incremento delle testate giornalistiche online, oggi molte più persone possano accedere al lavoro di giornalista. Io stessa devo ringraziare una testata giornalistica online, ma è pur vero che, per le stesse ragioni, se prima per un articolo si veniva pagati decentemente, perché dignitosamente è un eufemismo, oggi si lavora più che altro per passione ed il giornalismo più che un lavoro, per molti, è diventato un hobby.
Un altro spunto mi è stato poi suggerito dal libro “La Deontologia del giornalista”. E’ proprio qui che ti ritrovi a leggere una frase quasi commovente ripresa dalla legge professionale n. 327 del 5.10.1991, che al terzo comma stabilisce che: “Giornalisti ed editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie ….. e a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori”.
Ma in quale mondo vivono le leggi italiane? Spirito di collaborazione e cooperazione? A me sembra che solidale, tra i colleghi, sia la ricerca dell’errore commesso da qualcuno affinché ce ne sia uno in meno!
Tornando a Facebook ed agli altri social, quali Instagram (molto utilizzato per la pubblicazione di foto) o Twitter, o Linked In (usato perlopiù a scopi professionali), cosa sta avvenendo e accadrà nelle attuali e future generazioni?
Alcuni studi portati avanti da un gruppo di psicologi, ed effettuati su un campione di giovani che quotidianamente e più volte durante la stessa giornata utilizzano tablet o smartphone (la generazione 15-20 anni in media utilizza i social sei volte in più, il 45%, rispetto agli over 65, l’8%, come fonti principali per avere notizie), hanno riscontrato i seguenti fattori: riduzione del livello di concentrazione, aumento delle difficoltà di comunicazione, peggioramento delle relazioni interpersonali (eppure pubbliche relazioni se ne fanno sui social, forse solo virtualmente?), ed anche il livello di preparazione scolastica sembra essere peggiorato (fonte: Ministero della Salute).
Come si spiega questo andamento?
Forse alcuni docenti, stancandosi di dover continuamente attirare l’attenzione sulle proprie lezioni (poiché stressati da alunni più interessati a chattare o a leggere l’ultimo post dell’amico), si sono a loro volta annichiliti riversando le spiegazioni su noiose, seppur ben fatte, slide proiettate sul tecnologico pannello Lim, piuttosto che far aprire un bel vecchio libro?
Probabilmente è per lo stesso motivo che entrando nelle classi ci si ritrova davanti ad un gruppo di allievi che non comunicano tra loro in maniera diretta, commentano invece il post del compagno seduto di fianco, con lo sguardo fisso sullo schermo del telefonino!
Il web per fortuna non è solo questo ed i casi di successo non mancano: il tormentone “Andiamo a comandare” di Fabio Rovazzi ne è una conferma. Pubblicato soltanto online dall’etichetta Newtopia di Universal Music Group, il singolo è diventato subito il tormentone dell’estate 2016 e lo stesso autore, in alcune interviste rilasciate, ha dichiarato che uno dei segreti del suo successo è la mancanza di parolacce all’interno dei testi delle sue canzoni, lodevole vista la violenza verbale e la velocità con la quale ci si manda a quel paese nella comunicazione 2.0. Questo gli ha permesso di conquistare bambini e genitori che ne hanno autorizzato l’ascolto. Un esempio a cui ispirarsi Rovazzi, attento all’utilizzo dei vocaboli che usa in modo accurato e ricercato. Un ragazzo che a soli 23 anni (compiuti lo scorso 18 gennaio) dichiara di sentire il peso della responsabilità del linguaggio utilizzato nelle canzoni e nel web; un cantante sempre attento e scrupoloso nei confronti dei bambini in quanto consapevole della loro autonomia nella navigazione.
Attualmente un caso raro, ci auguriamo non per molto.
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