Sapete cosa significa essere precari, voi che quotidianamente ne discutete nei vari media? Sapete cosa si prova?
Avete letto bene. Non si tratta di capire, comprendere o addirittura compatire, ma proprio di sapere il significato insito nella precarietà. Sono stata parecchio indecisa sullo scrivere in merito, perchè è un mettermi parecchio a nudo e su un social come questo non è molto appropriato. Alla fine mi sono convinta a mettere queste parole su carta, seppur virtuale, con un intento che sia il più possibile legato a sensibilizzare sulla sconcertante sofferenza che il precariato crea, un disagio complesso da raccontare senza sconfinare nel patetismo o nell’atavica nenia meridionale della lamentela fine a se stessa.
Spesso leggo articoli e commenti insensati che dipingono i precari come gente incapace di mettersi in gioco e di migliorarsi. Ma costoro non sanno davvero cosa significhi ricevere tante porte in faccia, tanti no e talvolta neppure quelli. In molti casi c’è solo il silenzio alienante di email senza risposta, di curricula inviati rispettando tutti i sacrosanti e fottutissimi criteri indicati da esperti di risorse umane e che non ricevono MAI una risposta. E allora si entra in crisi ponendosi la classica domanda “cosa c’è in me che non va?” e giorno dopo giorno il porsi costantemente questa domanda distrugge ogni minima certezza sul proprio conto, lasciando scomparire l’autostima e la fiducia nel cambiamento e con essi lentamente sparisce anche la vita sociale. Sì, perchè è difficile uscire di casa e affrontare le domande (molte volte di cortesia) della gente e poi i suggerimenti (i vari “perchè non provi questo…non fai quest’altro…”) dovendo sempre giustificarsi e ripromettersi di seguire i consigli, sentendosi dentro sempre più smarriti e disorientati. E poi si finisce a provare vergogna. Davanti alla famiglia, agli amici e ai conoscenti perchè non si è “abbastanza” bravi e meritevoli di un lavoro mentre in lontananza c’è l’eco di futili dibattiti di facciata sul precariato, come al solito senza fine alcuno.
Questo provo ogni volta che mi gridano in faccia “non hai esperienza, non hai le competenze necessarie”, sentendomi tradita e abbandonata da chi dovrebbe invece tutelarmi. Così, in questa era di odio e di muri molti miei coetanei, per urlare la loro rabbia, scelgono l’odio verso se stessi, quello che nessuno dovrebbe mai conoscere. Ed è proprio per questo che bisogna imparare ad amarsi profondamente e a perdonarsi.E’ il mio modo di reagire. L’unica via per rispondere ai “non abbastanza” di questo maledetto precariato.
Maria Grazia Filisio
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