Parliamo di burnout: intervista con la dottoressa Antonella Marzano.
di Antonio Leonetti
In questo periodo così intenso in cui un virus ci obbliga al distanziamento sociale, oltre all’obbligo di rimanere in casa il più possibile, ci sono di contro categorie professionali esposte ad una condizione di stress elevato, un logorio psico fisico ed emotivo che può portare alla sindrome del burnout. Ne parliamo oggi con la dott.ssa Antonella Marzanopsicologa/psicoterapeuta dello studio S.A.PSI di Andria.
Inizierei, Antonella col raccontarci come nasce la tua passione per la psicoterapia.
Tra gli studenti di Psicologia è abbastanza diffusa l’idea che ognuno sia lì per risolvere i propri problemi o quelli di qualcuno molto vicino. Per farvi sorridere un po’, vi racconto che quando studiavo, accanto ai vari disturbi, segnavo i nomi di qualcuno che conoscevo o anche il mio. Associare il disturbo a una persona reale mi aiutava molto. La passione nasce proprio dalla volontà di capire gli altri e me stessao meglio ancora capire me stessa attraverso gli altri. Questo l’ho imparato meglio più tardi, quando nella formazione e nella pratica psicoterapeutica ho capito che in ogni paziente che incontro c’è sempre qualcosa che risuona in me che io ho bisogno di sentire per poterlo rielaborare e restituirglielo. Forse è un po’ complesso da comprendere. Io ci ho messo dieci anni per farlo. La passione nasce dalla necessità dell’incontro con l’altro.
Antonella puoi spiegarci cos’è il burnout e quali categorie professionali nel contesto attuale sono le più esposte?
La sindrome da burnout è una sindrome di esaurimento emozionale, di depersonalizzazione e di riduzione delle capacità personali che può presentarsi in soggetti che, per professione, si occupano di aiutare la gente. Il burnout è ilprezzo dell’aiuto agli altri, è il costo emotivo che quando diventa troppo alto si trasforma in esaurimento emozionale. Quindi le professioni più esposte sono i medici, gli infermieri, gli operatori sociosanitari e anche noi psicologi. Ci tengo a sottolineare che spesso ed erroneamente si pensa che il burnout sia un problema di un singolo, di un individuo. Invece è indispensabile ricordare che il malessere di un singolo operatore è la spia luminosa di un guasto nel contesto sociale in cui lavora. Nel momento attuale il rischio di burnout è molto alto perché gli operatori delle professioni di aiuto stanno vivendo uno squilibrio in eccesso tra le richieste che l’emergenza sanitaria impone e le risorse disponibili.
Quali sono i sintomi che indicano una sindrome del burnout e come può intervenire la persona più vicina al sintomatico? Quali, invece, i rimedi?
Il burnout si sviluppa solitamente attraverso quattro fasi: si parte da una fase di entusiasmo idealistico, caratterizzata da elevate motivazioni utopistiche all’impegno nel sociale, fino a giungere a una fase di apatia caratterizzata da quell’esaurimento e svuotamento emotivo a cui ho fatto riferimento prima, passando per la fase di stagnazione in cui i compiti vengono svolti con progressivo disimpegno e per la fase della frustrazione in cui ci si sente inutili in relazione al proprio lavoro. Tutto ciò si traduce in sintomi aspecifici (stanchezza, apatia, nervosismo), sintomi somatici (insorgenza di patologie psicosomatiche) e sintomi psicologici (rabbia, risentimento, irritabilità, aggressività, bassa stima di sé, isolamento e resistenza al cambiamento)
Non mi piace parlare di ammalato perché come ho spiegato prima ad essere malato è il sistema lavorativo in cui opera la persona che manifesta questa sofferenza.Ne consegue che il rimedio va proprio trovato in quel contesto, in quel sistema. Favorire il lavoro di équipe e incontri di gruppo, prevedere una supervisione dell’organizzazione del lavoro, promuovere la mobilità interna dei lavoratori, agevolare la conoscenza delle dinamiche relazionali e delle loro modalità gestionali possono essere buone pratiche.
Esistono delle fasce di età, tipologia di sesso che sono più sensibili al burnout?
Alcuni studi dimostrano che sono le donne i soggetti più a rischio. Sull’età non ci sono risultati univoci: alcuni sostengono che una carriera lavorativa alle spalle di almeno vent’anni sia un fattore di rischio, altri al contrario, che i sintomi siano più frequenti nei giovani, le cui aspettative si scontrano con la rigidità organizzativa in cui lavorano. Un’altra variabile analizzata è quella relativa allo stato civile e sembrerebbe che persone senza un compagno stabile siano più vulnerabili a sviluppare questa forma di esaurimento psico-fisico. Ci sono alcune caratteristiche di personalità che aumenterebbero il rischio del burnout, ovvero la tendenza a porsi obiettivi irrealistici, il concetto di sé come indispensabile, l’abnegazione al lavoro, inteso come sostituzione della vita sociale;la motivazione ed aspettative professionali elevate.
Come giustamente hai anticipato, sono tanti i profili lavorativi esposti al burnout: ricordo le categorie socioeducative (assistenti sociali, educatori professionali per l’autismo, insegnanti), cosa possiamo consigliare a chi ci legge e che spesso ha difficoltà nel prendere atto di un possibile burnout? Quali sono i primi passi da intraprendere?
La sindrome del burnout è stata inizialmente associata alle professioni sanitarie per poi allargarsi e abbracciare professioni che hanno a che fare con gli esseri umani anche se non in una relazione strettamente d’aiuto. Mi riferisco agli insegnanti, alle forze dell’ordine, ai soccorritori, ai vigili del fuoco.
Sicuramente il primo passo da intraprendere è riconoscere l’esistenza del problema.Nella maggior parte dei casi il burnout, si sviluppa in modo subdolo: spesso, chi ne soffre non se ne accorge e considera normali i primi campanelli d’allarme, come insonnia, cefalea, mal di stomaco, insofferenza per i turni e poca motivazione per lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Un segno caratteristico del burnout è che il lavoratore non riesce a recuperare nonostante le possibilità di riposo (la sera, nel fine settimana, in vacanza)
Se s’interviene tempestivamente con un’adeguata assistenza medica e/o psicologica, si evita che si inneschino meccanismi più complessi e difficili da gestire. Sul luogo di lavoro, il burnout può essere affrontato chiedendo sostegno al proprio superiore, al reparto risorse umane oppure all’ufficio competente dell’azienda. Al contempo, è possibile accrescere il supporto sociale, non solo di colleghi e amici, ma anche dei familiari, cercando di bilanciare al meglio il rapporto lavoro-vita privata.
Vorrei chiudere con una tua riflessione indicandoci quali azioni intraprendere per prevenire il burnout.
Il burnout può essere prevenutorispettando le proprie esigenze (sonno, cibo, attività fisica),fissandosi obiettivi ragionevoli, senza pretendere troppo da se stessi, definendo le priorità e se è possibile, delegando ad altri alcune delle mansioni da portare a termine.
Evitare i conflitti con i colleghi adottando un atteggiamento proattivo e condurre uno stile di vita sano per una maggiore resilienza nel fronteggiare qualsiasi tipo di esperienza stressante sono altri due fattori di protezione che possono aiutarci a tenere alla larga il burnout.
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