di Antonio Leonetti
Sono giorni che impongono di fermarsi, di riflettere, questi. Ne ho voluto parlare con Stella Addario, attrice del nostro territorio.Più che un‘intervista, una piacevole chiacchierata, un modo per fare, attraverso le sue passioni, il punto della situazione nel panorama culturale della nostra Italia.
Con Stella abbiamo discusso rapidamente di spettacolo, ma soprattutto di cultura riprendendo un articolo recente di Pupi Avati pubblicato sul CdS (Corriere della Sera), concentrandoci per alcuni momenti sulla connessione tra artista, spettatore e televisione.
Vorrei ringraziare personalmente Stella evidenziando un suo passo molto interessante: “diamo la possibilità di comprendere quanto è meraviglioso il paese che abitiamo. Se è vero che, come diceva Dostoevskij “la bellezza salverà il mondo”, permettetemi di aggiungere: ma chi salverà la bellezza?”
Stella Addario è un’attrice, performer, suona uno strumento unico l’hang e pratica danza e yoga. Come è nata la tua passione per il teatro? Chi è stato il tuo punto di riferimento e perché suoni l’hang?
Credo di aver avuto sin da piccola questa vocazione. Molti bambini, secondo me, hanno una forte disposizione artistica. L’infanzia è un periodo dorato, in cui puoi permetterti di sperimentare qualsiasi cosa, perché tutti i canali creativi sono aperti e non censurati dal giudizio. Ho sempre avuto un grande interesse per le discipline artistiche, tout court. A cinque anni, danzavo, cantavo e nelle recite scolastiche mi scapicollavo perché mi assegnassero una parte. Ma al teatro non ci sono arrivata subito. La mia vita infatti, completato il ciclo di studi, sembrava destinata alla carriera forense.
Un giorno, però – lo ricordo benissimo – mentre assistevo ad uno spettacolo in teatro, “Ritratto di signora del cavalier Masoch per intercessione della beata Maria Goretti”, un testo teatrale partorito dal genio di Carmelo Bene, ho provato un desiderio irrefrenabile di essere parte di quel processo che stava accadendo davanti ai miei occhi. Ho avvertito la magia del teatro, in quel rapporto unico ed esclusivo che si instaura tra attore e spettatore, l’energia e tutta l’umanità che esso esprime. È stato un momento catartico, che ha segnato una svolta nelle scelte che avrei compiuto di lì in poi. Negli anni di formazione, sono stati tanti i punti di riferimento, soprattutto i grandi Maestri del teatro. Mi hanno sempre detto che per imparare era anche importante osservare e saper “rubare” i trucchi del mestiere. Il nostro è un lavoro quasi artigianale. Nella costruzione di uno spettacolo, si prova, si sperimenta, si ricerca. Un gesto, un movimento, una parola, non sono mai a caso, ma il travaso di tutto quello che l’attore ha imparato negli anni della sua carriera dentro e fuori il teatro. Parlando di punti di riferimento, devo molto alla compagnia con la quale collaboro prevalentemente da ormai sette anni, la Compagnia del Sole, diretta da Marinella Anaclerio, regista ispirata e sensibile e dall’istrionico Flavio Albanese, che è stato anche mio insegnante in Accademia. Quello con la compagnia e con gli attori che ne fanno parte è un sodalizio artistico ed umano, cosa rara di questi tempi.
La musica è stata da sempre parte della mia vita. Avevo il desiderio di imparare a suonare uno strumento musicale, nel nostro mestiere è un’abilità richiesta spesso, ma non sapevo come orientarmi nella scelta. La folgorazione è avvenuta, anche sta volta, assistendo ad uno spettacolo teatrale, un monologo scritto e diretto da PeterBrook (Warum, warum) nel quale l’attrice era accompagnata da questo strano strumento di strana foggia che emanava un suono celestiale. A fine spettacolo ho comprato il cd. Dopo qualche anno, ho comprato l’hang, che costava qualche zero in più.
Sono ormai 4 settimane che siamo in quarantena e passiamo la maggior parte delle sere incollati alla tv; spesso ci lamentiamo di palinsesti ripetitivi e poco educativi. Chi lavora nel mondo dello spettacolo e dell’arte riceve sempre meno spazi televisivi, quali sono le tue indicazioni?
È un dato di fatto che nell’ultimo ventennio l’avvento e il consolidamento della TV commerciale hanno innescato un processo di profonda trasformazione delle logiche di programmazione e del senso stesso della comunicazione televisiva. Gli ultimi anni sono stati caratterizzati dal proliferare di fiction, non sempre di qualità, di tv-verità o real-tv che cerca di portare in scena il vero, e dall’invadenza dei reality show. Le programmazioni a contenuto scientifico, “culturale” (anche se detesto connotare con questo aggettivo) sono diventate appannaggio di reti tematiche o relegate a programmazioni in fasce orarie notturne scoraggianti. Dato il periodo e condividendo in pieno una recente lettera di Pupi Avati pubblicata sul CdS, mi sentirei di suggerire alle dirigenze Rai di approfittare di questa tregua sabbatica di settimane, di mesi, per riappropriarsi della sua primitiva funzione di TV generalista, di sconvolgere totalmente i palinsesti e rivedere i contenuti. Perché non provare a far crescere culturalmente il paese, stravolgendo davvero i vecchi parametri, contando sull’effetto terapeutico della bellezza? Magari programmando finalmente i grandi film, i grandi concerti di ogni genere musicale, i documentari sulla vita e le opere dei grandi pittori, dei grandi scultori, dei grandi architetti, la lettura dei testi dei grandi scrittori, la prosa, la poesia, la danza, dando al paese l’opportunità di crescere culturalmente. Per esempio, molte grandi istituzioni teatrali su questa scia hanno cominciato a rendere pubblici gli accessi agli archivi di spettacoli che hanno fatto la storia del teatro mondiale. Parlo dello Shaubhune di Berlino, il National Theatre di Londra, Nederland Dance Theatre e in Italia il Piccolo Teatro di Milano, Teatro dell’Elfo, Teatro Biondo di Palermo. Molte cineteche rendono possibile la visione gratuita dei grandi capolavori del cinema italiano e non. Molti musei nel mondo hanno aperto le porte a visite multimediali. Insomma, diamo la possibilità a milioni di italiani di scoprire che c’è altro. Diamo la possibilità di comprendere quanto è meraviglioso il paese che abitiamo. Se è vero che, come diceva Dostoevskij “la bellezza salverà il mondo”, permettetemi di aggiungere: ma chi salverà la bellezza?
Riprendo dalla tua risposta il pensiero sulla Rai e la televisione chenel periodo postbellico sono state lo strumento utilizzato dallo Stato per istruire la popolazione. Cosa può fare chi lavora nello spettacolo affinché si possa ristabilire una connessione culturale con lo spettatore?
Verissimo. L’impegno dei dirigenti Rai nell’immediato dopoguerra rispondeva all’intento di promuovere la cultura tra la popolazione, c’erano ancora molti analfabeti o semianalfabeti. Indubbiamente la televisione ha favorito negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale quell’unificazione linguistica e culturale, che scuola e istituzioni non erano riuscite a raggiungere in quasi cento anni di unificazione politica. Oggi ci troviamo a far fronte ad un analfabetismo culturale, soprattutto tra i giovani, di matrice diversa, derivante dall’uso e consumo indiscriminato di notizie e contenuti via web e piattaforme social. È già da un bel pezzo che la televisione si è arresa ad internet, ormai al piccolo schermo si preferisce di gran lunga il web. Hai utilizzato questo bellissimo termine “connessione”…stabilire una connessione! Credo che questa rappresenti negli anni a venire la sfida più grande che chi come me lavora nel mondo dello spettacolo debba raccogliere e vincere. Preferirei parlare di una connessione umana, prima di tutto, prima che culturale. Stiamo vivendo, per via dell’emergenza covid – 19, un paradosso sociale: costretti dalla contingenza ad un isolamento forzato, sentiamo e denunciamo l’impossibilità di stare insieme, di aggregarci liberamente, senza renderci davvero conto che a questo isolamento già ci condanniamo tutte le volte che ci sintonizziamo su una pay-tv, piuttosto che andare a cinema, a teatro, allo stadio, in libreria…tutte le volte che ci rifugiamo dietro lo schermo di un pc, tablet o smartphone…lo dico senza demonizzare la tecnologia, che utilizzo tantissimo. Penso che prima di connessione culturale dovremmo riappropriarci di una connessione sensoriale, fatta di occhi che guardano negli occhi, di fiato appiccicato alle parole, sentire la presenza fisica dell’altro. Il teatro è fatto di questo, per esempio. Il teatro non può rinunciare a questo tipo di connessione, perché non sarebbe più teatro.
Come ci hai già anticipato, dagli anni ’90 in poi la cultura italiana è cambiata e qui la televisione commercialeha giocato un ruolo fondamentale. Sono pochi gli artisti che possono essere considerati alla stregua dei grandi degli anni ‘60 – ’80, e anche il teatro ha dovuto ridimensionarsi. Cosa possiamo riprendere da quegli anni e contestualizzarlo ad oggi?
Com’era bella la tv di una volta: c’erano i varietà del sabato sera, la vera fucina dei grandi attori del passato, Totò, Fabrizi, Chiari, Tognazzi, tra gli altri, Canzonissima, i grandi sceneggiati (I promessi sposi, Odissea, Il conte di Montecristo, I fratelli Karamazov, Madame Bovary, per citarne alcuni), Carosello, i grandi riadattamenti del teatro per la televisione (le opere di De Filippo, Ionesco, Shakespeare). Bisogna stare attenti però, perché quando si parla di televisione si cade spesso in luoghi comuni e facili moralismi che non spiegano un bel niente. In realtà, l’unica nostalgia che provo riguardo a quegli anni è per la professionalità: in passato, chi faceva tv doveva passare dalla gavetta, mentre oggi il talento sembra non più tanto necessario.
Secondo te Stella, questo periodo particolare che stiamo vivendo può diventare una chance?
Lo è senza ombra di dubbio, a patto che sappiamo riconoscere nella crisi senza precedenti che stiamo vivendo un’opportunità. In giapponese la parola crisi è formata da due ideogrammi, uno significa “pericolo” e l’altro “opportunità”. L’epidemia ha messo a nudo e dimostrato tutti gli inganni della dottrina liberista. Un modello che ci ha costretto a competere fino allo sfinimento senza garantire protezione ad alcuno di noi. “Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema”, mi pare di aver letto in un articolo pubblicato sul web. Condivido. E anche se non è questa la sede più opportuna per fare analisi di ideologie e sistemi sociali, sento profondamente che questo stop a cui siamo obbligati ci sta chiamando a qualcosa di più grande e perfino più semplice. Ci chiama ad una nuova responsabilità, più inclusiva, a un nuovo ordine. Come spiega DaisakuIkeda, maestro buddista e terzo presidente della SokaGakkai Internazionale, «esistono vari tipi di rivoluzione: politica, economica, industriale, scientifica, artistica… ma, indipendentemente da cosa viene cambiato, il mondo non sarà mai migliore finché le persone rimarranno egoiste e prive di compassione. In questo senso, la rivoluzione umana è la più importante di tutte le rivoluzioni e allo stesso tempo la più necessaria per l’umanità…la Rivoluzione Umana di un singolo individuo contribuirà al cambiamento nel destino di una nazione e condurrà infine al cambiamento nel destino di tutta l’umanità». Ecco, io spero e credo in questo nuovo Umanesimo.
Qual è la vicenda che vorresti condividere con tutti e che possa lasciare un vero messaggio di cambiamento ai nostri lettori?
Una su tutte: il toccante discorso del primo ministro Edi Rama, che ha accompagnato la partenza dei trenta medici albanesi per Italia. “Oggi noi siamo tutti italiani”, ha detto. Non credo serva aggiungere altro.
Grazie
#noirimaniamoacasa
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