Un centinaio di pagine, queste servono a Pavese per raccontare di una lunga gita al mare, di una malinconica estate in Riviera, tutt’altro che spensierata e di due amici che si ritrovano dopo tanti anni.
Il nostro protagonista, l’io narrante, è al tempo stesso attore e narratore della storia. Pur vivendo tutto in prima persona, esplica i fatti in modo distaccato e cerca di mostrarci la vita matrimoniale del suo amico Doro, torinese trasferitosi a Genova con la benestante e borghese Clelia. La realtà coniugale della coppia è costellata da dubbi, da incertezze che diventano tema di discussione tra i conoscenti, di supposizioni vicine al reale, ma tra l’immaginare e il sapere c’è un mare, non da poco.
“La spiaggia” si è rivelato essere uno scritto malinconico e monotono, una racconto lento nel ritmo che, però, accompagna il lettore per mano per tutta la sua durata sino ad un finale lasciato quasi a metà.
La prosa è meravigliosa, ricca di immagini vivide e di sensazioni che pervadono l’anima. Pare quasi di sentirlo quel vento tra i capelli, quell’aria salmastra che caratterizza le giornate estive di questo gruppo di amici/conoscenti. In sostanza non accade granché eppure la narrazione mi ha incantata ed emozionata.
Pavese non ha mai reputato questo suo romanzo come meritevole di esser letto ma come puro e semplice esercizio di stile. Io, invece, l’ho trovato uno di quei libri che leggi in un pomeriggio e di cui, col passare dei mesi, non ricordi gli avvenimenti, i nomi dei personaggi o la loro caratterizzazione ma ti lascia addosso una piacevole sensazione e lo rammenti con un mezzo sorriso, sempre.
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