Sono sempre più frequenti le richieste effettuate da parte dei lavoratori dipendenti volte ad ottenere il risarcimento dei danni patiti alla propria integrità psicofisica in conseguenza dei comportamenti tenuti dai datori di lavoro o dai colleghi di lavoro, di natura asseritamente vessatoria.
Il mobbing è, in particolare, una pratica persecutoria o di violenza psicologica, sistematica e protratta nel tempo, attuata dal datore di lavoro o dai colleghi nei confronti del lavoratore che lo costringono alle dimissioni.
Il fatto riguardava alcune richieste effettuate da un dipendente a seguito di un demansionamento nell’ambito lavorativo nonché a seguito di comportamenti vessatori e discriminatori lamentati.
La Cassazione, nel merito, ha affermato che è configurabile una condotta di mobbing solo laddove vi sia la presenza di comportamenti denunciati che, se valutati singolarmente, sono riconducibili ad una sequenza casuale, pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, ma atti ad essere vessatori e mortificanti per il lavoratore e quindi ascrivibili alla responsabilità del datore o del collega interessato.
La Corte, pertanto, con due importanti e recentissime sentenze, la n. 10285/18 e la n. 18717/18, si è concentrata su due casi giuridici, facendo chiarezza su come difendersi in fattispecie concrete.
Con la sentenza del 27.4.2018 n. 10285, la Corte di Cassazione si è soffermata sul caso di un responsabile di polizia amministrativa provato dal datore di lavoro sia degli uomini che dei mezzi necessari a svolgere il suo lavoro.
Tale dipendente privato non era stato altresì consultato sulla riorganizzazione del suo corpo di polizia. Egli, pertanto, era stato mortificato ed isolato e tale situazione gli aveva provocato una sofferenza psichica tale da farlo ammalare.
I giudici di Piazza Cavour hanno chiarito innanzitutto che il mobbing può concretizzarsi attraverso varie forme, la mortificazione può consistere, non solo in offese ma anche in emarginazioni dequalificanti per il soggetto, privato anche dei poteri gerarchici e gestori.
Nel caso di specie, l’impossibilità ad espletare i propri compiti ha provocato nel soggetto una lesione professionale e personale e così è stata accolta la sua richiesta di risarcimento.
Con l’altra sentenza, la Cassazione ha affrontato il caso in cui le offese e le umiliazione non vengono poste in essere dal datore di lavoro ma dal collega di lavoro, in tal caso si parla di mobbing orizzontale, laddove il dipendente di pari grado decide di prendere di mira un altro collega umiliandolo e deridendolo.
Nel caso di specie, il lavoratore aveva criticato il collega e la propria azienda pubblicando un post sul noto social network, Facebook.
La Corte ha suggerito che, per difendersi da tali azioni, la vittima può riferire tali offese al datore di lavoro, il quale può adottare le misure punitive al fine di difendere l’immagine aziendale.
Per quanto attiene le offese personali, invece, è possibile agire contro il collega attraverso una causa di mobbing per ottenere il risarcimento del danno subito e il licenziamento dello stesso.
La violenza psicologica, però, deve intendersi continuativa ed ininterrotta, non possono essere presi in considerazione eventi sporadici ed occasionali.
In quest’ultimo caso, infatti, si parlerà di “straining”, di minore entità rispetto al mobbing ma comunque idonea a creare nella vittima un disagio psico fisico e morale e, pertanto, meritevole di tutela giudiziale.
Dott.ssa Adriana Scamarcio
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