In occasione dell’anniversario del rapimento dell’allora Presidente della DC, Aldo Moro, pubblichiamo un pensiero scritto da uno studente tranese, Francesco Tomasicchio in occasione della ricorrenza.
“Il 16 marzo 1978 un commando di brigatisti (e non solo, alla luce delle ultime testimonianze emerse) rapì l’allora presidente della Democrazia Cristiana on. Aldo Moro, uccidendo, freddamente e senza alcuna pietà, gli uomini della sua scorta.
Oggi, tuttavia, l’intento di chi scrive non è quello di ricostruire gli eventi di quella tragica mattinata in Via Fani, come tanti e bene (ma qualche volta anche molto male e non del tutto involontariamente) hanno tentato di fare in questi trentanove anni, bensì quello di analizzare un aspetto fondamentale, spesso e volentieri trascurato sia a causa di un becero opportunismo sia di una non adeguata conoscenza degli accadimenti: il venir meno, in quei tragici giorni, della nostra sovranità nazionale.
Talvolta mossi da una fervida voglia di ricostruire troppo velocemente il misfatto, con la contraddittoria pretesa di fare chiarezza in tanta nebulosità, altre volte mossi dall’intento di depistare la ricostruzione della vicenda, politici, storici e giornalisti, hanno il più delle volte messo in ombra l’impotenza assoluta che lo Stato italiano mostrò al cospetto di questa tragedia e la spaventosa cessione di sovranità sul proprio territorio evidenziata nella vicenda, quasi fosse diventata, l’Italia, prateria per le scorribande di lanzichenecchi di potenze straniere. Ché di tanto, evidentemente, pare essersi trattato.
Non pare proprio opportuno, per di più a distanza di quasi quarant’anni, sottovalutare od, addirittura, omettere di esaminare il ruolo che la nostrana sovranità di stato italiano (non) giocò nel sequestro Moro. Le prime testimonianze in tal senso provengono direttamente da alcune delle lettere scritte da Aldo Moro durante la sua prigionia. Si tratta di testimonianze decisive per la ricostruzione degli avvenimenti e che, purtuttavia, ben pochi conoscono.
Emblematiche sono la lettera numero tre e la lettera numero sei, rispettivamente indirizzate all’allora ministro degli interni Francesco Cossiga la tre ed al segretario della DC Benigno Zaccagnini la sei. Nella prima lettera, fra le due elencate, Moro dice: <
Oltre che lo stato d’animo disperato e, come lo stesso Moro ha dichiarato in una delle sue lettere, la convinzione di essere stato abbandonato al suo destino anche dai suoi più cari colleghi di partito, dalle lettere si evincono precisi richiami alle loro responsabilità e precise accuse ai leaders DC ma anche ai vertici del PCI di allora, invocando, in ogni caso, il perseguimento di ogni possibile strada per intavolare una trattativa per la liberazione di alcuni dei detenuti BR.
Tuttavia, furono rari ed isolati i tentativi ‘realmente’compiuti tentare di salvare la vita di Moro, posti in essere da chi ebbe il coraggio di dissociarsi dalla cosiddetta ‘Linea della Fermezza’.
Una linea quest’ultima che, col senno del poi, dava molto di “Linea dell’ipocrisia” piuttosto che della fermezza, poiché di fermo aveva ben poco, a cominciare dal quanto mai equivoco ruolo giocato nella tragedia dall’allora Presidente del Consiglio Andreotti e dall’allora ministro degli interni Cossiga, uomini non a caso molto, troppo, vicini agli USA, che tutto volevano tranne che un governo DC-PCI. E, probabilmente, essi non lo volevano poiché non lo volevano gli USA, così come lo avversavano i settori più ortodossi del PCI poiché anche l’URSS lo vedeva come il fumo negli occhi.
Sicché, in questa tragica vicenda giocò un ruolo certamente decisivo la singolare coincidenza di interessi delle potenze straniere USA ed URSS, sino ad allora sempre contrapposte in tutto, ma in quel frangente violentemente concordi nel non voler vedere l’Italia laboratorio politico di un inedito e mai sperimentato quadro politico-governativo DC – PCI.
Su di un punto, infatti, tutte le Commissioni e le indagini sono risultate pienamente d’accordo : l’azione di via Fani fu un’azione militare in piena regola e dalle caratteristiche operative talmente congegnate da non poter in alcun modo essere state studiate e poste in essere dalle BR. Di tal che, la paternità, vuoi teorica vuoi pratica, dell’affaire Moro, non è certamente riconducibile, se non in minima parte, ai terroristi nostrani.
A nulla servirono, dunque, i piani di Bettino Craxi, il tentativo della Santa Sede e di Papa Paolo VI, di Amintore Fanfani, di Flaminio Piccoli ( il quale, si dice, provò addirittura a coinvolgere il mondo della criminalità romana attraverso Enrico De Pedis ). E chissà se un giorno riusciremo anche a capire quanta parte di quei tentativi fosse riconducibile ad esclusivo spirito umanitario e quanto, viceversa, non risultasse anche un encomiabile tentativo, ad opera di statisti che avevano già capito come stessero davvero le cose, di rivendicare il diritto di essere padroni a casa propria.
In un momento così drammatico, che avrebbe richiesto una grande convergenza di volontà politica, a mio avviso la nostra classe dirigente si scisse in guisa netta, sostenendo la necessità di far prevalere la “ragion di stato” e scegliendo in realtà la via più semplice, nonché quella della codardia e della irresponsabilità, abbandonando Moro alla propria sorte e contemporaneamente riducendo la nostra Sovranità Nazionale a poco più di un vuoto simulacro.
Eppure ci furono casi analoghi in cui lo stato si comportò diversamente, trattando ad oltranza con i brigatisti, come nel rapimento del giudice Mario Sossi ed in quello che riguardò l’assessore della regione Campania Ciro Cirillo. Perché con Aldo Moro la maggior parte della classe dirigente politica italiana decise di non trattare? Dire che la linea della fermezza fosse l’unica via possibile per poter trattare, oggi, pare ai più poco credibile. E’ chiaro che ci furono altri fattori e logiche internazionali che soverchiarono decisamente l’autonomia della classe politica italiana, la quale si mostrò del tutto impotente ed inadeguata dinanzi a questa vicenda.
Pertanto, oggi, a distanza di quasi quarant’anni, cominciano a delinearsi con maggiore chiarezza i reali contorni del caso Moro, che di nazionale, questo è pacifico, non aveva assolutamente nulla e che ci consentono di poter affermare che esso rappresenti oramai il simbolo della sudditanza e della mancanza di responsabilità tenuta dalla magna pars della classe politica dominante di allora, la quale diede, messa alle strette, trovò come unica via di uscita dalle proprie contraddizioni e dai propri limiti, quella di scaricare sul povero Presidente della DC la responsabilità di essere l’unico artefice del famigerato “Compromesso Storico”.
Sarebbe auspicabile approfondire finalmente anche sotto l’anzidelineato aspetto il caso Moro, per poter comprendere finalmente, con la necessaria obiettività, cosa davvero si cela dietro quei tragici giorni in cui, a mio sommesso parere, l’Italia fu solo il terreno di scontro di interessi sovra ed extra nazionali
Francesco Tomasicchio
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