E’ qualcosa di impossibile da dimenticare: lo leggi negli occhi che scavano costantemente tra i ricordi alla ricerca di un appiglio, lo leggi negli occhi di Domenico, autista soccorritore che, nonostante la giovanissima età, svolge già da quasi 10 anni questo ruolo. Lo leggi nelle parole con le quali prova a raccontare quella mattina del 12 luglio che ha sconvolto e cambiato profondamente un intero territorio. Lo leggi nella necessità di parlare e confrontarsi per capire semplicemente perchè. Domenico Di Chio autista, Michela Ciniero soccorritrice, entrambi della Confraternita Misericordia di Andria, il dott. Lionetti medico e l’infermiere Campanale dell’Asl BT, erano i componenti dell’equipe “Mike 8” della postazione di Andria 1 del 118, la prima ad esser stata contattata dalla Centrale Operativa di Bari per intervenire nella maxi-emergenza dello scontro ferroviario. Come da prassi, la prima ambulanza medicalizzata, infatti, è quella che apre l’intervento e che deve anche chiuderlo senza mai lasciare la zona.
«Avevamo appena concluso un intervento nella città di Andria, quando ci è giunta la telefonata della centrale operativa – ci ha detto Domenico – scontro tra treni è stata la comunicazione. Ogni volta che si parte per un intervento la prima cosa su cui devi concentrarti, soprattutto per noi autisti, è la strada da effettuare nel più breve tempo possibile. Poi pensi a cosa potrai trovarti di fronte. Poi giunti sul posto ti concentri sull’intervento. Una prassi mentale che in questa occasione è stata stravolta a partire dal primo passaggio e cioè quello di cercare la strada più rapida per arrivare sul posto dell’incidente. Le coordinate erano alquanto frammentarie ed il luogo impervio disperso tra le campagne non ha certo aiutato. Ci siamo diretti verso l’esterno della città per cercare una interconnessione con la ferrovia per poi seguire il percorso, ma ci siamo subito resi conto che sarebbe stato difficile. Ed allora, proprio ad uno dei passaggi a livello tra le campagne, abbiamo incontrato un parente di una delle persone presenti sul treno, a cui abbiamo chiesto di farci inviare la posizione precisa attraverso il “maps”. In quel momento e dopo meno di dieci minuti dallo schianto, siamo riusciti a trovare il luogo preciso del disastro». Le parole di Domenico si fanno più serrate, tra le procedure da rispettare costantemente e la necessità di fare in modo che tutti i passeggeri potessero esser aiutati nel più breve tempo possibile.
«Mentre arrivavamo sul posto, come succede nelle maxi emergenze – dice ancora Domenico – il dottore accanto a me ha cominciato a preparare dei pezzi di cerotto per indicare nel più breve tempo possibile il triage dei feriti cioè i codici verde, giallo, rosso e purtroppo anche nero. La prima ambulanza medicalizzata che arriva sul posto, è anche l’ultima che deve abbandonarlo e deve preoccuparsi oltre che di soccorrere, di dare l’indicazione più corretta possibile dello stato in cui versano i vari pazienti trattati e che saranno poi trasferiti in Pronto Soccorso dalle squadre giunte in ausilio. Ma ben presto, giunti sul posto, ci siamo resi conto che quei pezzi di cerotto erano ben pochi rispetto al disastro che ci siamo ritrovati di fronte. Dal punto di vista puramente dell’intervento posso dire che è stato un gran lavoro di squadra, subito dopo di noi è giunta l’equipe del 118 di Andria 2 e dopo pochi minuti anche il 118 di Corato. In genere le squadre si dividono subito in gruppi formati da due componenti, ma in questa occasione abbiamo dovuto necessariamente fare in modo che ognuno di noi fosse autonomo nei soccorsi perchè la mole di lavoro era inimmaginabile».
I secondi, i minuti, le ore, che ti cambiano la vita e che, nonostante l’esperienza, non puoi mai immaginare: «Mi sono immediatamente chinato su di un signore che era stato sbalzato fuori dal treno, abbiamo messo in moto tutte le procedure del caso ma i lamenti e le grida erano tantissimi, ed all’improvviso mi si è presentato davanti un signore che era una maschera di sangue. Ho preso una manciata di garze ed ho provato a premere per evitare che continuasse a perdere sangue, lui era spaventato ma non si lamentava. Nel frattempo flebo all’altro uomo disteso a terra e poi…». E poi stop, e poi le parole lasciano il posto alla frenesia del momento e dei ricordi, all’adrenalina che nei soccorritori ha permesso di lavorare ininterrottamente oltre due ore per medicare, salvare vite, estrarre corpi, arrampicarsi tra le lamiere. «Attorno alle 15, più o meno, avevamo completato le operazioni di messa in sicurezza dei feriti. Assieme ai vigili del fuoco ormai si cercava eventuali sopravvissuti o corpi purtroppo deceduti rimasti incastrati nelle lamiere. Terminata la concitazione del momento, dopo diverse ore, mi sono fermato e sono scoppiato a piangere – dice ancora Domenico – non me ne vergogno a dirlo. Mi ha visto un Carabiniere che si è avvicinato alle spalle mi ha dato due forti pacche sulle spalle e mi ha detto “non mollare”».
Le immagini sono ancora ben impresse nella memoria e non andranno via per molto tempo. Ma nella testa dei tanti che sono intervenuti in quei minuti drammatici non può che esserci una domanda: “perchè?”. L’urlo e poi il silenzio, per continuare a non dimenticare.