Era il 26 aprile 1986, nel corso di un test di sicurezza, un brusco e incontrollato aumento di potenza (e quindi della temperatura) del nocciolo, del reattore n. 4, salì fino all’incandescenza provocandone la fusione, all’ 1.24 del mattino il reattore esplose, dando origine a quello che è stato descritto come il peggior disastro nucleare che il mondo abbia mai visto.
Alcuni secondi dopo la prima esplosione ne seguì un altra, ancora più forte. Il coperchio da 500 tonnellate fu smantellato e l’aria, risucchiata dal fondo, si trasformò in una gigantesca fiamma ossidrica che disperse nell’atmosfera 50 tonnellate di carburante nucleare, mentre 700 tonnellate di grafite radioattiva si sprigionano per tutto l’impianto. Una nube di fumi, contenenti isotopi radioattivi, si alzò per oltre un chilometro sopra la centrale. E mentre i componenti pesanti di questi fumi ricaddero nelle vicinanze della centrale, quelli leggeri, ovvero i gas, iniziano la loro marcia per l’Europa.
La polvere radioattiva si trasformò in un invisibile killer che contaminò tutto ciò che incontrava. Gran parte dell’Ucraina, della Bielorussia e della Russia furono contaminate in modo irrevocabile, e si dovette procedere all’evacuazione di circa 336.000 persone. Secondo dati ufficiali il 60% delle scorie radioattive invase solo la Bielorussia, molto uomini accorsero alla centrale per limitare i danni e trenta di loro, tra cui pompieri morirono subito per le esposizioni. Gli operatori che sopravvissero all’esplosione perché lontani dal nocciolo del reattore, ebbero destino più terribile giorni, mesi, anni di sofferenza prima di essere uccisi lentamente dagli effetti dell’esposizione alle radiazioni, ufficialmente le vittime furono 65 ma il parlamento europeo ha stimato che le morti presunte riconducibili all’incidente, causate dalle malattie e dalle malformazioni indotte dalla radioattività, possano essere fino a 60 mila in un arco di 70 anni. I registri oncologici di Bielorussia, Russia e Ucraina, insieme a studi epidemiologici basati su altre fonti, evidenziarono un incremento drammatico dell’incidenza del tumore alla tiroide nella popolazione all’epoca dell’incidente in età 0-18 anni residenti nelle aree di Bielorussia, Russia e Ucraina colpite dal disastro.
A distanza di trent’anni l’umanità continua a fare i conti con Chernobyl, anche se oggi rappresenta una lontana tragedia…uno sguardo basso su un disastro che apre la discussione popolare al nucleare;ma quell’esplosione continua ad essere un pesante macigno, non sono bastati trent’anni per mettere in discussione e stravolgere radicalmente la nostra visione della vita e le nostre strategie energetiche, non sono bastati trent’anni per capire che Chernobyl è ancora lì con i suoi alti livelli di radiazioni, non sono bastati trent’anni per capire che a furia di mettere polvere sotto il tappeto prima o poi il tappeto si alzerà ricordandoci ancora una volta che l’emergenza non è ancora finita.
di Cinzia Montedoro
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