Torniamo a parlare di cibo e produzione alimentare per ricordare che nonostante si proclami libero mercato è evidente il dominio di pochi grandi marchi nell’industria alimentare.
Il grafico della Oxfam, una delle confederazioni internazionali specializzata in aiuto umanitario e progetti di sviluppo, insieme ad altri studi e dati statistici di settore, ci ricordano infatti che sono 10 i signori che controllano da soli più del 70 per cento del cibo del pianeta. Queste multinazionali gestiscono 500 marchi che entrano nelle nostre case quotidianamente: pasta, biscotti, caffè, bevande…che diventano sempre più globali, anche in Italia.
Non sempre sono nomi noti in Italia. Da un secolo la Coca Cola è il sinonimo della multinazionale ma solo gli addetti ai lavori conoscono la Mondelez. Un po’ più numerosi sono gli italiani che ricordano la Kraft, vecchio nome proprio della Mondelez. E’ per questo che i 500 marchi riconducibili ai 10 signori della tavola sono spesso vissuti dai consumatori come aziende a sé stanti. In realtà fanno parte di multinazionali in grado di condizionare non solo le politiche alimentari dell’Occidente ma anche le politiche sociali dei paesi più poveri.
La concentrazione nelle mani di pochi appare evidente dal grafico Oxfam, che si propone proprio di aiutare le popolazioni povere del mondo cercando di rendere virtuosi, con campagne e raccolte di firme, i comportamenti delle multinazionali del cibo. Ma la tendenza alla concentrazione dei marchi è in atto da tempo e riguarda praticamente tutti i settori alimentari salvo poche inevitabili eccezioni come nella produzione vinicola dove il blocco alla creazione di grandi gruppi è dovuto a un legame strettissimo con il territorio. Nella birra non è più così da tempo e analoga concentrazione sta per avvenire nel settore del caffè.
Allora la domanda preoccupante è se con altre fusioni e concentrazioni ci troveremo un giorno a consegnare ad un unico gestore le chiavi della dispensa del mondo? Quello di un pianeta in cui una sola grande multinazionale controllerà tutti i marchi alimentari è certamente uno scenario da incubo.
Per fortuna, come tutti i processi di concentrazione, anche quello del cibo crea i suoi anticorpi e la diffusione e la sponsorizzazione di prodotti a chilometro zero, i presidi territoriali, i sistemi di produzione artigianale, come tutti rimedi contro l’omologazione sono un prezioso strumento per garantire e tutelare una maggiore qualità ed eccellenza. Chi resiste alla tentazione di vendere l’azienda alle multinazionali è inevitabilmente portato a valorizzare il suo brand mettendo in evidenza il legame con il territorio e puntare sulla qualità.
Ma la lotta è dura. L’Italia è certamente uno dei Paesi dove il rischio della concentrazione dei produttori di alimenti è meno forte in quanto è un paese dominato dal modello della piccola e media impresa, che nel settore del cibo è una virtù. Ma il rischio è per tutti.
La stessa discussione delle normative comunitarie sulla etichettatura ha inevitabilmente risentito dell’influenza dei signori del cibo. Ogni particolare in più o in meno da aggiungere sul foglio informativo per i consumatori si porta dietro miliardi di investimenti. Il caso più clamoroso è scoppiato di recente riguardo gli oli utilizzati: prima era sufficiente scrivere genericamente “oli vegetali”, poi è scoppiato il caso dell’olio di palma, decisamente più scadente di quello di oliva e molti marchi hanno dovuto adeguarsi.
Dunque l’impegno è adottare sempre più politiche e strategie che diano primaria importanza alla persona, al benessere, alla qualità e non meramente al profitto, sì da evitare ulteriori danni al pianeta e a tutti noi.
E’ unamissione a cui tutti possiamo partecipare iniziando con la conoscenza, la consapevolezza e l’impegno a puntare sulla qualità, sul territorio, sulla tutela dell’ambiente. La terra in cui viviamo, i suoi prodotti, i cicli naturali, sono un dono da non trascurare e imparare a rispettare.
Di Annalisa Lullo
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