< O China, o China, ch’or sussulti e trasecoli inquieta – come dormivi lieta – gonfia de’ tuoi settantamila secoli… >.
Così Giuseppe Adami e Renato Simoni, librettisti della Turandot di Giacomo Puccini, fanno recitare ad uno dei personaggi di quell’ultimo capolavoro del maestro.
E si parla, in quell’opera ispirata alla celebre composizione teatrale di Carlo Gozzi, di una Cina immaginaria e atemporale. Dalla prima a teatro dell’opera, anno 1926, ad oggi, è passato poco meno di un secolo, abbastanza da permettere alle cose di trasformarsi radicalmente, ancora abbastanza poco in confronto a ciò che potrebbero essere se paragonate al passato plurimillenario che la Cina ha, vive al presente, e allo stesso tempo soffoca per forgiare un avvenire nel quale si incrociano tutti i fuochi della terra. La sensazione che ormai le parole nella Turandot appartengano al passato è assolutamente chiara, plastica, una volta giunta a Pechino.
La lista delle cose da vedere nella Capitale del Nord manderebbe in crisi qualsiasi turista che avesse la pretesa, fin troppo elevata, di vedere il più possibile in pochi giorni. Si comincia con il lasciarsi incantare dalla vista dell’enorme serpente che si snoda tra percorsi rocciosi e montagne – dalla provincia dello Hebei al Gangsu -, che segue il ritmo della natura, le asperità e forme del terreno per 6.200 km circa, risultato ultimo di una serie di costruzioni difensive risalenti ad epoche differenti. L’enorme serpente è la Grande Muraglia 长城, patrimonio culturale mondiale dal 1987. Durante la dinastia Qin, il 70% circa della popolazione cinese lavorò alla costruzione delle prime 3.000 miglia della Muraglia.
Un’opera ciclopica che incanta e che, a suo modo, è anche faticoso visitare. E’ perciò insieme un simbolo, una sfida, un mito. Tanto che il detto cinese “不到长城非好汉” “Non sei un vero uomo fino a che non hai scalato la Grande Muraglia” spiega perchè milioni di visitatori ogni anno la visitino per avere anche solo la possibilità di toccare con mano e camminare su una delle opere in muratura più famose al mondo. Seconda tappa obbligatoria: la Città Proibita 故宫, casa imperiale per 491 anni, rimasta nascosta al mondo per secoli. Secondo la tradizione cinese, l’Imperatore in terra, figlio del cielo e tenuto a rispettare le divinità celesti, ordinò la costruzione di novecentonovantanove stanze tra padiglioni, cortili e giardini contro le diecimila fatte costruire in cielo dal leggendario imperatore di Giada.
E poi Piazza Tian An Men 天安门, come camminare tra le righe del mio libro di storia. Il Tempio del Cielo 天坛, in cui gli antichi imperatori sussurravano al cielo, in attesa del buon raccolto; il Lama Temple 雍和宫, il tempio lamaista più grande di Pechino: al suo interno una statua del Buddha Maitreya (il Buddha del futuro) alta 18 metri e ricavata interamente dal tronco di un solo albero. E dopo ancora il Palazzo d’Estate 颐和园, il parco BeiHai 北海. Sfidare il proprio stomaco assaggiando croccanti scorpioni in Wangfujing Dajie, perdersi fra gli Hutong, vicoli pechinesi stretti e tortuosi, dove il confine tra l’abitazione e la strada è a discrezione di chi ci vive, incontrarvi i sorrisi dei bambini, scorgervi le loro teste che spuntano dagli angoli delle strade.
A Pechino si entra dalla porta dell’amicizia perché oggi – come al tempo del Trattato sull’Amicizia scritto da Matteo Ricci (il gesuita nativo di Macerata accolto nel 1601 alla corte di Pechino) – la sua lezione vale ancora: il viaggio può portarci ovunque, ma nulla, se non la comprensione di un popolo a partire da sè stesso, dalla sua identità riconosciuta e rispettata, può aiutarci a dare un valore all’esperienza dei suoi luoghi.
Chiara Rutigliano
Send this to a friend